LA NOSTRA STORIA
Dopo che i freddi intensi e ghiaccio hanno stretto nella loro morsa le alture del globo terracqueo spaccando in più parti la superficie, le alluvioni che seguirono trascinarono verso il basso, nelle pianure, ogni sorta di detriti. Lo scorrimento delle acque in discesa dai monti non aveva una precisa conformazione, anzi in terre appena formate, l’alternanza degli alvei ai torrenti, fosse, scoli e fiumi, riusciva estremamente facile. La nostra terra dunque con un livello di poco superiore a quello del mare, doveva presentarsi ricca di valli e solcata da una miriade di rigagnoli e fiumi tra i maggiori d’Italia. L’Adige allora passava quasi sicuramente per Montagnana, Este e per dove ora sono se non vi fossero stati allora, i paesi di Tribano e Arre. I centri di Bagnoli, Olmo e di Anguillara si trovavano perciò sulla destra del Fiume.
L’attuale corso è dovuto alla gran rotta della Cucca e Pizzon di Badia Polesine nel 589. Per quest’aspetto lagunare questa terra è nota ai greci col nome di “Polus Nevos” ossia aggregato di isole; ai romani come “Paludi Adriane” o più semplicemente come “Polesinum”, termine dal quale deriva il nostro Polesine. Chi furono i primi abitatori di queste terre? A parere di molti l’ipotesi più attendibile sembra essere quella che fa capo agli storici Polibio e Tito Livio, secondo la quale, i “Heneti” venuti da Troia con Antenore, cambiarono l’H con la V chiamandosi Veneti e Veneto la terra ove si sono insediati. Di certo si sa che i Veneti appartengono a quella popolazione abitante lungo la costa atlantica e sottomessa due volte da Cesare. Parte di questa popolazione si stabilì in seguito lungo le coste settentrionali dell’Adriatico distinguendosi a fianco dei Romani, nelle guerre contro i Galli, e nelle grandi costruzioni di strade, ville e colonie come Aquileia. In ogni caso questa gente, prima di stabilirsi su queste terre deve aver trovato un optimum climatico con approvvigionamento d’acqua, facilità di dedicarsi al commercio lungo il corso dei fiumi, fertilità del terreno e sicurezza del territorio.
Naturalmente all’inizio prevale l’agricoltura, la pastorizia, la caccia e pesca data l’abbondanza delle specie che popola i luoghi. E proprio per la fertilità del terreno, per la ricchezza dei boschi e per tutto quello che assicura la vita, l’uomo di questa terra si è sempre prodigato nel corso dei secoli, a difendere se stesso e i luoghi abitati, con fortificazioni e bonifiche, iniziate con gli Etruschi e proseguite da Romani che abbandonano con la decadenza dell’Impero. I territori così diventano ancora una volta preda delle acque, e di quanti cercano rifugio dallo sterminio dei barbari in continua discesa dal nord. E’ il caso dell’orda guidata da Attila nel 452 che dopo aver distrutto Aquileia, costringe la popolazione a rifugiarsi in terraferma tra le paludi o nelle isole per creare nuovi agglomerati o addirittura città come la bella Venezia. A quale periodo si può ritenere abitata la terra di S. Martino? Fino a poco tempo fa non era possibile datare un insediamento in questo territorio. I recenti rilevamenti aereofotogrammetrici, hanno invece evidenziato tracce precise di vita umana, risalenti all’età del bronzo e a quella romana caratterizzata dalle centuriazioni e di sistemi viari. Attraverso lo studio delle foto e dei rilievi di campagna, è stato tra l’altro possibile stabilire con certezza, una via romana e un paleoalveo. Chiaramente visibile, la strada è affiancata da due grandi fossati, e si snoda in linea retta tra le località di Buso e Foresto presso Monsole di Cona, attraverso Sarzano, Barbariga e Beverare.
Dopo che i freddi intensi e ghiaccio hanno stretto nella loro morsa le alture del globo terracqueo spaccando in più parti la superficie, le alluvioni che seguirono trascinarono verso il basso, nelle pianure, ogni sorta di detriti. Lo scorrimento delle acque in discesa dai monti non aveva una precisa conformazione, anzi in terre appena formate, l’alternanza degli alvei ai torrenti, fosse, scoli e fiumi, riusciva estremamente facile. La nostra terra dunque con un livello di poco superiore a quello del mare, doveva presentarsi ricca di valli e solcata da una miriade di rigagnoli e fiumi tra i maggiori d’Italia. L’Adige allora passava quasi sicuramente per Montagnana, Este e per dove ora sono se non vi fossero stati allora, i paesi di Tribano e Arre. I centri di Bagnoli, Olmo e di Anguillara si trovavano perciò sulla destra del Fiume.
L’attuale corso è dovuto alla gran rotta della Cucca e Pizzon di Badia Polesine nel 589. Per quest’aspetto lagunare questa terra è nota ai greci col nome di “Polus Nevos” ossia aggregato di isole; ai romani come “Paludi Adriane” o più semplicemente come “Polesinum”, termine dal quale deriva il nostro Polesine. Chi furono i primi abitatori di queste terre? A parere di molti l’ipotesi più attendibile sembra essere quella che fa capo agli storici Polibio e Tito Livio, secondo la quale, i “Heneti” venuti da Troia con Antenore, cambiarono l’H con la V chiamandosi Veneti e Veneto la terra ove si sono insediati. Di certo si sa che i Veneti appartengono a quella popolazione abitante lungo la costa atlantica e sottomessa due volte da Cesare. Parte di questa popolazione si stabilì in seguito lungo le coste settentrionali dell’Adriatico distinguendosi a fianco dei Romani, nelle guerre contro i Galli, e nelle grandi costruzioni di strade, ville e colonie come Aquileia. In ogni caso questa gente, prima di stabilirsi su queste terre deve aver trovato un optimum climatico con approvvigionamento d’acqua, facilità di dedicarsi al commercio lungo il corso dei fiumi, fertilità del terreno e sicurezza del territorio.
Naturalmente all’inizio prevale l’agricoltura, la pastorizia, la caccia e pesca data l’abbondanza delle specie che popola i luoghi. E proprio per la fertilità del terreno, per la ricchezza dei boschi e per tutto quello che assicura la vita, l’uomo di questa terra si è sempre prodigato nel corso dei secoli, a difendere se stesso e i luoghi abitati, con fortificazioni e bonifiche, iniziate con gli Etruschi e proseguite da Romani che abbandonano con la decadenza dell’Impero. I territori così diventano ancora una volta preda delle acque, e di quanti cercano rifugio dallo sterminio dei barbari in continua discesa dal nord. E’ il caso dell’orda guidata da Attila nel 452 che dopo aver distrutto Aquileia, costringe la popolazione a rifugiarsi in terraferma tra le paludi o nelle isole per creare nuovi agglomerati o addirittura città come la bella Venezia. A quale periodo si può ritenere abitata la terra di S. Martino? Fino a poco tempo fa non era possibile datare un insediamento in questo territorio. I recenti rilevamenti aereofotogrammetrici, hanno invece evidenziato tracce precise di vita umana, risalenti all’età del bronzo e a quella romana caratterizzata dalle centuriazioni e di sistemi viari. Attraverso lo studio delle foto e dei rilievi di campagna, è stato tra l’altro possibile stabilire con certezza, una via romana e un paleoalveo. Chiaramente visibile, la strada è affiancata da due grandi fossati, e si snoda in linea retta tra le località di Buso e Foresto presso Monsole di Cona, attraverso Sarzano, Barbariga e Beverare.
La sua larghezza media raggiunge gli 8,30 metri circa. Parallelamente e perpendicolarmente ad essa, s’ intersecano le linee di suddivisione agrarie in reticoli quadri di 29 metri circa di lato, all’interno dei quali sono visibili altre suddivisioni, con sentieri, e fossati che limitano piccoli appezzamenti. Un’opera grandiosa che mostra tutta la perizia dei Romani nel regolare il drenaggio delle acque e favorire insediamenti in un’idrografia compresa tra l’Adige, al nord, il Tartaro Canal bianco a sud, e l’antico scolo Pistrina ad ovest. I moderni mezzi di ricerca sul territorio hanno pure consentito l’individuazione di un paleoalveo noto come Pistrina o Pestrina, dal corso d’acqua in grado di far funzionare i mulini. Sul dosso di questo scolo, scorre la provinciale Rovigo-Anguillara, ad un livello più alto rispetto al piano campagna, tanto da essere individuato come “strada alta”, ossia quella strada sulla quale era tirata la fune per il transito di battelli contro corrente. Partendo da Rovigo, il corso si dirige verso Mardimago, dove piega verso Cà Venezze, e nuovamente riprende la direzione nord fini ad incrociare l’Adige. Lungo il suo percorso sorsero Frattesina, Villamarzana e, quasi sicuramente, la località Saline di S. Martino, visti i materiali di epoca romana e pre-romana rinvenuti alla base di un fossato. Tra i più importanti i vasi e le olle con particolari decorazioni; monete di Caligola del 38 d.C. ed un bronzetto del I sec. d.C. raffigurante Venere che si scioglie il sandalo.
Di notevole interesse il piccolo capitello dedicato alla Madonna in località Fenil San Paolo a Beverare perché ubicato lungo una carreggiata, nel punto dove il decumano massimo della strada accennata, incrociava il cardine. Poco lontano, gli scavi hanno messo in evidenza parte di una struttura attribuibile ad abitazione, confermando un insediamento che potrebbe essere portato alla luce. Altri ritrovamenti sono emersi a Cà Venezze, Barbariga, Chiaroni e Trona di Sotto, e tutti durante lavori di profonda aratura o escavo di fossi. La prima segnalazione risale al 1867 per merito del fattore Carlo Marcassa per un anfora e frammenti di tegole trovati nella proprietà dei conti Mangilli.. Si può ipotizzare la causa della scomparsa dell’antico aspetto e le difficoltà di trovare testimonianze alle numerose alluvioni e alle successive opere di bonificazione. Del passato perciò, l’unica cosa certa resta il territorio, continuamente conteso tra romani, bizantini, greci, longobardi ed altri. Forse Agilulfo, conquistata Padova e diretto a Mantova nel 602, passò e soggiornò su queste terre, tanto che le sue truppe che vi sostarono per ben 172 anni, ci hanno tramandato alcune espressioni della loro lingua come gaza (scappellotto), broare (scottare) o nomi come Adalberto (nobile splendente). Non è neppure da escludere tra i nostri avi, l’origine longobarda, dato che i condottieri di quel popolo, allo scopo di ottenere dall’esercito il massimo rendimento, promettevano agli ufficiali titoli nobiliari, mentre ai soldati, il bottino fatto di saccheggi con razzie di donne.
Con la suddivisione dei territori in contee, dovute in massima parte alla calata dei Franchi, si poneva fine nel 774 al dominio dei Longobardi. Carlo Magno, oltre che promuovere la suddivisione territoriale e l’istituzione dell’unità monetaria, si prodigò per la diffusione delle scuole monastiche. Queste scuole fiorirono in Italia e nel Polesine e devono la loro sopravvivenza ai prodotti che la buona terra offriva. In età feudale quindi, nella prateria polesana, dove spesso la popolazione sentiva bisogno di pace, grandi vassalli di Ottone I di Germania, quali Almerigo e la moglie Franca fecero costruire a Badia Polesine una chiesetta dedicata alla B.V. e chiamata della Vangadizza. Successivamente, accanto a questa chiesa, fu eretto un monastero affidato ai monaci benedettini. E’ la prima donazione degli Estensi a cui ben presto altre e più consistenti seguirono, tanto da far ritenere il monastero della Vangadizza uno dei più insigni e privilegiati d’Italia. Donazioni di terre furono fatte da singoli proprietari, anche di S. Martino, come da atto notarile dei signori Bernardino di Maino e Nascimbene dei Mantilli nel 1285.
Nel 998 il primo Abate del monastero della Vangadizza, Martino dell’ordine di S. Benedetto, riceve il primo atto d’investitura ecclesiastico feudale dal marchese di Toscana Ugo il Grande: Con quest’atto l’Abate acquista il potere di giudicare sulle terre, case e castelli, oltre al diritto del pedaggio sulle imbarcazioni in transito nell’Adige. All’Abate spetta pure la nomina del sacerdote da inviare nella Villa del territorio. Tra queste Ville figura quella di S. Martino, la cui giurisdizione durerà fino alla soppressione del monastero, nel 1793. Nel secolo XI si manifesta in Polesine una ripresa di vita. Le campagne si ripopolano e i terreni abbandonati e acquitrinosi, sono prosciugati e dissodati per essere produttivi. Lungo l’Adige riprende l’attività commerciale e numerosi sono i mulini che lavorano anche per terzi. Inizialmente sembra che le cose vadano bene anche per S.Martino, ma poi, ancora una volta, gli eventi ci mostrano una popolazione afflitta da invasioni di mercenari con razzie e ruberie dovute in parte alla presenza e importanza del passo sul fiume. Già nel 1296 gli Estensi cedettero ai Carraresi di Padova la terza parte di alcune Ville nel Polesine, compresa S. Martino, con tutte le conseguenze che si possono avere ogni volta che si cambia padrone. Questa cessione avvenne perché anche nella famiglia degli Estensi non tutto funzionava bene: erano continui i contrasti soprattutto sulla conduzione delle guerre contro i Carraresi che portarono a gravi dissesti economici.
Allo scopo di sanare la finanza, Nicolò III, nel 1395, ricorse per un prestito alla Repubblica Veneta che concesse la bella somma di 50.000 ducati per cinque anni chiedendo in pegno tutto il territorio polesano. Trascorsi i cinque anni, gli estensi non si trovano nelle condizioni di pagare il debito, e perciò Venezia decide di stabilirsi nel territorio polesano instaurando il controllo amministrativo, commerciale e politico che durerà fino al 1438, quando il marchese Nicolò d’Este ritornerà in possesso dei suoi beni. Anche i Carraresi tentarono un ritorno in Polesine sbaragliando le difese del Castel Venezze, ma furono ricacciati indietro con tutto il loro sogno di conquista. Quattro anni dopo, nel 1442, il Polesine in mano agli Estensi godette di una relativa pace che si protrasse fino al 1482. Venezia, infatti, non aveva mai nascosto l’intenzione di ritornare, perciò dichiarò guerra al duca di Ferrara, e dopo due anni, con la pace di Bagnolo (Brescia) occupò definitivamente Rovigo e il suo territorio il 21 ottobre del 1514 con il generale Bartolomeo Alviano che aveva superato con tutte le truppe l’Adige improvvisando un ponte a S. Martino.Lo storico A. Bocchi ricorda che il generale passò il fiume dopo aver mandato in avanscoperta i suoi fidati capitani Cardiglio e Malatesta Baglioni con le relative truppe. Nel frattempo, nell’agosto del 1509, S. Martino diventa campo di battaglia: oggi è passato a Anguillara el cardinal de Ferrara con 100 homeni d’arme, 200 cavali lezieri, 1500 fanti….tutti lì intorno”; un’altra giornata vede attestarsi a S. Martino sulle rive del fiume le truppe del duca di Ferrara, per costruire bastioni a difesa e palificate nell’alveo dell’Adige, intendendo così diminuire la portata dell’acqua ed impedire la risalita dei Veneziani per via fluviale.
Le eccezionali condizioni dell’Adige nella primavera del 1973 e dell’estate del 1990 hanno evidenziato nell’alveo dell’Adige a Borgoforte di fronte a Beverare, un manufatto composto di due torri a pianta rettangolare con gli assi convergenti verso valle tanto da far pensare che in passato abbia servito proprio a difesa fluviale contro la risalita di natanti. Per S. Martino comunque sono state cause di altre alluvioni e altre disgrazie. Finalmente, con il ritorno della Repubblica Veneta, inizia per S. Martino un periodo di pace: riprende la vita e, con essa, la volontà di risorgere ancora una volta. Molte famiglie del patriziato veneto decisero di stabilirsi in queste terre, anche se bisognose di essere bonificate, con lo scavo dei fossi per lo smaltimento delle acque stagnanti. Già gli Estensi avevano dato inizio a questi lavori nel 1400. Si tratta ora di continuare con lena e competenza. Le leggi vigenti allora erano molto severe: era proibito il pascolo a tutti gli animali, nel periodo di piena, lungo l’argine; il taglio degli argini abusivo era punito con la pena di morte e la confisca dei beni. tutti gli uomini idonei dovevano mettersi al servizio del Massaro in caso di necessità. Il Massaro infine faceva rispettare ai piccoli possidenti l’obbligo del taglio delle erbacce lungo gli scoli, che dovevano essere regolarmente scavati per garantire il deflusso delle acque. Tutti questi lavori richiedevano un’assidua vigilanza e competenza, perciò si moltiplicarono le investiture di terreni a persone disposte, dietro misero compenso, a rendere fertili e abitabili i luoghi da bonificare e migliorare.
Gli Abati della Vangadizza si preoccuparono inoltre di far rispettare i prati che andavano mantenuti nella loro destinazione naturale a pascolo, mentre l’opera di disboscamento per il recupero di terreni doveva seguire particolari accorgimenti, data l’utilizzazione intensa del legno, non solo per usi domestici ma anche per la costruzione di abitazioni, rifugi, attrezzi da lavoro e altro. Il bosco, tanto diffuso ovunque, anche a S. Martino al punto che diverse porzioni di territorio sono ancor oggi chiamati “bosco”, era formato da piante di alto fusto come il frassino, l’olmo il rovere, il pioppo, la robinia ecc.che venivano regolarmente e periodicamente tagliate: Non mancavano quelli fruttiferi come il fico, il ciliegio, il pero o il noce apprezzato per l’alimentazione diretta del suo frutto. Una volta abbattuti gli alberi con il taglio delle radici, si procedeva all’aratura mediante vomero trainato da buoi, dopo di che si passava alla semina a spaglio, e in primavera, all’operazione del diserbo mediante la zappa.
La mietitura era manuale, con la falce messoria o piccolo falcetto, mentre la molatura avveniva con i molini detti anticamente “pistrina” e chi non poteva utilizzare questi congegni, operava a mano mediante la sfregatura dei cereali con le pietre. Oltre al frumento che lentamente avanzava sul miglio, tra i cereali, l’orzo, la segala e granoturco. non mancavano i cavoli, le fave, il radicchio, le carote e l’aglio. La vite, invece, trattandosi di pianta ibrida, non à molto coltivata.. I più sono a casa a preparare attrezzi da lavoro o utensili per la famiglia. .Il quadro offerto al lettore, vuol essere in parte una ricostruzione sulla base di notizie storiche o di informazioni rilevate tra gli anziani. La terra di S. Martino, per esempio, era soprattutto terra di pascolo, abitata in maniera sparsa e con pochi abitanti, così come lo ricordano le visite pastorali del 1668 (ab. 156) e 1671 (ab. 270).
Inoltre, consultando alcuni contratti d’affitto di feudo o livello, si apprende che gran parte dell’area coltivata attualmente era riservata a liberi pascoli o occupata da acquitrini allora protetti per la loro funzione di difesa. Il bestiame che pascolava liberamente si nutriva prevalentemente delle foglie e giovani rami del salice molto diffuso e importante a quel tempo. Mio nonno ricordava spesso come i suoi genitori si nutrivano nei momenti di carestia, di germogli di salice lessati o con il frutto del tribolo acquatico, cioè di quella pianta da palude il cui frutto nero triangolare come una castagna, una volta seccato, poteva essere ridotto a farina o lessato. Come si può intuire, dai fossi, laghetti e paludi la comunità poteva trarre risorse come le erbe palustri del caresin o caresina utilizzata per l’impagliatura dei fiaschi e sedie; la paviera usata per fare cordicelle o per la copertura di casoni; la canna per la costruzione di soffitti, pareti o per essere bruciata in cucina. La raccolta di queste piante era faticosa e poco remunerativa, però era necessaria dato l’uso e le applicazioni che era possibile fare. Anzi si creò anche a S. Martino una nuova categoria di lavoratori, quelli proprio che si dedicavano alla raccolta di piante acquatiche tanto da essere noti con il soprannome “Caneta” o “Paviera”. Un lavoro duro quello dei campi, che si svolgeva generalmente dall’alba al tramonto senza tregua nella buona stagione. durante l’inverno, invece, solo pochi uomini si trovano impegnati nello scavo dei fossi o scoline. I più sono a casa a preparare attrezzi da lavoro e utensili per la famiglia, e tutto regolato dal suono delle campane, che sorte in funzione liturgica, hanno per secoli svolto quella regolatrice del ciclo agricolo giornaliero.
Con lo scorrere degli anni, anche la Repubblica veneta cessò, e queste terre passarono nel 1796 sotto i francesi. Sono aboliti tutti i privilegi nobiliari, decaduti tutti i cittadini con cariche pubbliche, depredate tutte le Chiese e fatti chiudere tutti i monasteri compreso quella della Vangadizza. La giurisdizione religiosa di S. Martino passerà alla diocesi di Adria. Tra sfacciate ruberie, vengono trasmessi al popolo, concetti di libertà, uguaglianza, lavoro e di produzione. A seguito del trattato di Vienna del 1815, il Polesine è ceduto all’Austria. Altri cinquant’anni di governo e di mano di ferro caratterizzati da fermenti sociali con scioperi di risonanza nazionale alimentati da una miseria progressiva. Attanagliata dalla nuova rotta dell’Adige del 1882, dalle malattie, dalla povertà e dalla disperazione, decine di persone, abbandonando anche la famiglia, trovano la via dell’emigrazione in America: un triste fenomeno che si protrarrà fino al 1918. Per quanto riguarda il Comune, quello di S. Martino è classificato di prima categoria, dato il numero di possidenti inferiori alle 300 unità; appartiene alla Provincia di Rovigo, Distretto di Rovigo, Dipartimento del Basso Po. Con l’avvento del regno d’Italia, è nominato sindaco di S. Martino Carlo Marcassa che cerca di dare nuovo impulso all’obbligo scolastico e all’assistenza sanitaria.
Nasce anche la Cassa Rurale Cattolica dei Prestiti e istituito l’ufficio telegrafico. Con lo scoppio della guerra contro l’Austria, le campagne rimangono prive di braccia, dopo che gli uomini abili sono chiamati alle armi e 112 non faranno più ritorno alle loro case. I loro nomi saranno incisi sul marmo del monumento eretto nel 1925 sia nel capoluogo sia nella frazione. La pretesa di lavorare e vivere con maggiore civiltà da parte dei contadini contro i grandi proprietari che rifiutavano qualsiasi dialogo, favorì la nascita delle “leghe rosse, bianche e del fascismo”. Per buona parte di tempo del nuovo regime, podestà fu Antonio Giuseppe Belloni, che s’impegna per gli impianti d’irrigazione e per l’estensione della rete d’illuminazione e dell’acqua potabile.
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, S. Martino si vede mutilato dei sacri bronzi delle campane e monumenti. Si assistette al reclutamento e sbandamento dei giovani, oltre alle rovinose incursioni aeree per abbattere il ponte sull’Adige. Cessate le ostilità, rinasce il desiderio di vivere, attraverso una serie d’interventi interrotti dall’alluvione del Po nel 1951, e dalla crisi dell’agricoltura che favorirà il fenomeno migratorio d’intere famiglie verso altre Regioni d’Italia. Superato anche questo momento, in paese prevale la volontà della ricostruzione morale e materiale. Spuntano i cantieri scuola per l’apertura, consolidamento e asfaltatura di nuove strade; è favorita la costruzione di case popolari, di plessi scolastici, della scuola media con palestra e della materna; la sistemazione della piazza centrale, dei campi sportivi, degli uffici comunali, degli ambulatori medici,e dei cimiteri..
Parallelamente, anche i parroci sono impegnati nella sistemazione delle chiese, campanili, canoniche e asili.
Negli anni “80” iniziano le grandi opere che serviranno tutto il territorio, quali le fognature, la rete del gas, quella elettrica, telefonica e di acqua potabile. La creazione di una moderna discarica, che ha favorito l’attivo di bilancio, ha permesso agli oculati amministratori, impieghi per la realizzazione di strutture idonee su un’area artigianale e commerciale in parte occupata, la costruzione di una moderna e capace palestra polivalente; nuove strade, locali per la biblioteca e per gli anziani, nuovi campi sportivi, la sistemazione della nuova piazza, mentre sono ancora in corso di lavori la nascita di quella che diventerà la ” cittadina dei ragazzi” con parco-giardino- giochi. Un notevole impulso alla cultura e svago è dato dalla biblioteca comunale, dall’Associazione culturale, e dalle molte altre presenti nel territorio.
(testo a cura del Prof. Antonio Volpe)
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